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Considerazioni e riflessioni

30 settembre 2010 • News

LO SVILUPPO DEL PAESE, IL RUOLO DELLA POLITICA ED IL RAPPORTO CON LE FORZE SOCIALI

La nostra riflessione non può che partire dall’attuale congiuntura politica e sociale, perché riteniamo che, malgrado i nostri sforzi per ridare priorità ai problemi concreti, la politica continua, invece, ad avvitarsi su se stessa.

Addirittura rischia di mancare l’appuntamento anche con ciò che è possibile realizzare con facilità, facendoci così correre il pericolo di un ancora più grave logoramento economico e sociale per il resto del 2010, per di più non lasciandoci intravvedere nemmeno in lontananza una minima capacità progettuale, in grado di operare fin da adesso per costruire il futuro.

Abbiamo assistito in queste settimane al rito consueto della litigiosità, che, come spesso sta accadendo, non si è espresso soltanto tra maggioranza e opposizione, ma anche all’interno degli stessi schieramenti.

Ancora non ci è sembrata una nobile contrapposizione di idee, ma questioni di basso profilo che, comunque, hanno comportato l’invocazione, da più parti, di un nuovo ricorso alle urne elettorali.

In realtà l’appello alla sovranità popolare, in queste condizioni, nasconde una estrema debolezza del ruolo e dei compiti propri delle forze politiche.

Si parla molto di consistenza della maggioranza, di modifiche, che sarebbero sacrosante, alla legge elettorale, di calcoli politici sulla presunta fine del “berlusconismo”, ma non riusciamo a capire cosa davvero possono dare, oggi, Governo e partiti per tirare l’Italia fuori dalle difficoltà e, soprattutto, per ritrovare un vero rapporto, diretto e positivo, con le famiglie, i lavoratori, le imprese, insomma, con il paese reale, in carne ed ossa.

Il prestigio delle Istituzioni non è più sorretto dalla forza morale ed ideale che fu propria dei nostri Costituenti ed i cittadini vengono privati dei riferimenti illuminanti da imitare come anche delle regole trasparenti da condividere.

Le Istituzioni appaiono viziate da un eccesso di personalismo e da un sempre più palese conflitto di bassi interessi che, spesso, contrappongono lobbies e salotti, offrendo così alla opinione pubblica, sicuramente a quella attenta e non suggestionabile, la prova di un sostanziale disinteresse a svolgere la primaria funzione di servire l’interesse comune.

Qualche giorno fa il Presidente Napolitano, fortuna che c’è lui, parlando ai giovani studenti, ha ricordato che la politica è sì ricerca di soluzioni, ma in essa si devono evidenziare anche spessore culturale e moralità.

Perciò Napolitano ha ammonito sul fatto che la cosa più sterile e dannosa per la nostra convivenza civile è la contrapposizione politica totale.

È questo un richiamo che tutti i politici farebbero bene a non ignorare, anche perché è un richiamo significativo, fatto davanti ai giovani che hanno oggi una grande necessità di sentir parlare di valori e comportamenti etici, in una società che offre, invece, esempi ben diversi e discutibili.

Ma non vogliamo essere noi a coltivare pessimismo o moralismo.Ora la nostra massima attenzione è concentrata sui modi e le scelte che devono essere presi in fretta per lasciarsi alle spalle la crisi.

Una crisi che mostra le debolezze tradizionali dell’Italia, ma anche la mancanza nell’Europa di un salto di qualità sulla concertazione delle politiche economiche e sociali.

Un impegno che dovrebbero assumersi in primo luogo le leadership degli Stati europei, ma che invece latita e provoca disaffezione sulla stessa idea di Europa fra gli stessi popoli del vecchio Continente.

In Italia hanno sempre contato i numeri. Numeri che, però, spesso nascondono o sviliscono il valore stesso del loro contenuto.

Il Governo, infatti vuole rilanciarsi attraverso un’azione concentrata su cinque punti indicati dal Premier: giustizia, fisco, federalismo, mezzogiorno e sicurezza.

Convinti come siamo che questi cinque punti avrebbero già dovuto essere prioritari e che il reale interesse è, invece, rivolto altrove, la nostra sensazione è che essi in realtà difficilmente avranno una prospettiva e costituiranno il punto di partenza per un diverso e più costruttivo confronto politico in Parlamento e nel Paese.

Il nostro Paese sta vivendo un periodo di logoramento politico della capacità di azione del Governo che non promette nulla di buono. Per di più assistiamo all’incalzare, spesso vuoto e miserevole, di risse politiche, che si spingono, attraverso polemiche d’ogni tipo e favorendo il montare di scandali di ogni tipo, fino ad incidere, come abbiamo detto, sul prestigio delle Istituzioni, introducendo nuove armi a chi ritiene che, al di là delle posizioni, quello che conta è mettere fuori gioco l’avversario. Purtroppo, anche dalle opposizioni non ci sembra che arrivi un contributo chiaro, convincente alle esigenze del Paese. Va bene la critica, ma talvolta la demonizzazione inutile dell’avversario e l’anatema producono un evidente distacco con l’opinione pubblica, anche perché l’arcipelago di leader, gruppi e fazioni, nel centro sinistra, riflette sul paese un’immagine di confusione, di incapacità a trovare ragioni forti di alleanza, ed anche discutibili giudizi sulla realtà sociale del Paese, come fa intravedere una certa sudditanza psicologica nei confronti dell’area antagonista del sindacato. Anche la progettualità del centro sinistra, insomma, non è adeguata a reggere l’urto dei cambiamenti.

Anziché imboccare un convincente percorso per conquistare l’egemonia politica e culturale nel nostro Paese, l’attesa sembra essere rivolta, in modo estatico, all’implosione del centro destra, al declino del periodo berlusconiano, alla stanchezza dell’elettorato.

Ma ci domandiamo se il modo migliore per presentare credenziali serie per candidarsi a governare il Paese possa essere quello di manifestare continui dissidi, di fare e disfare leader, di concepire le alleanze politiche solo sulla quantità e non, invece, sulla coerenza delle posizioni.
Viviamo una fase incerta e poco felice: i cicli economici si fanno sempre più brevi, compresi purtroppo i periodi di ripresa.

Le difficoltà economiche delle famiglie italiane stanno ridisegnando la mappa dei ceti sociali con crescenti ed inquietanti disuguaglianze tra ricchi e poveri e con lo spaventoso ampliamento della povertà che, ormai, ingloba oltre alle famiglie monoreddito, sempre più famiglie a doppio reddito basso.

Tali mutamenti della vita economica e le nuove condizioni sociali stanno così producendo un sostanziale cambiamento delle regole del gioco come testimoniano anche le recenti sfide aperte nel nostro paese, a partire proprio dal caso Fiat. Su questo terreno non si vedono, purtroppo, le condizioni per un produttivo confronto politico e sociale, all’altezza dei problemi.

La politica ha, in fondo, smarrito il proprio ruolo e le proprie funzioni e, ad aggravare la situazione, dietro questi ritardi e questi suoi vizi, si sta nascondendo un nemico ancora più insidioso, quello di un qualunquismo, che nasce questa volta dai timori per il futuro, dalla paura di perdere reddito e stato sociale, di perdere lavoro e rispetto, e che contribuisce a dividere ancora di più il nostro paese: nord contro sud, grandi imprese e piccole imprese, lavoratori pubblici e privati, famiglie italiane ed immigrati, per non parlare del distacco e dell’incomunicabilità fra le generazioni.

Il vero sviluppo del nostro Paese può realizzarsi solo tenendo conto che sia il Nord che il nostro Mezzogiorno sono delle risorse importanti che offrono concrete opportunità per risolvere la crisi nel nostro Paese, per aumentare e distribuire, in modo equo ed omogeneo, sull’intero territorio nazionale, ricchezza e benessere, compiendo finalmente l’unificazione dell’Italia, che ancora è incompiuta dopo centocinquanta anni della sua storia.

Bisogna avere coraggio e considerare la questione meridionale non più soltanto come un argomento di stanco rituale, trattato per ragioni politicamente corrette, per poi accantonarlo nelle risoluzioni finali, ma come problema cruciale del nostro Paese, da risolvere concretamente anche per mettere a frutto, in modo più redditizio, la forza economica prodotta al Nord.

La storia del nostro Paese ci dimostra che, dei tanti Governi che si sono succeduti, è stata sempre trascurata la necessità di programmare per bene lo sviluppo del Mezzogiorno, sconfiggendo semmai tutte le avversioni pregiudiziali.

Il problema vero è che non si è mai preparato e pulito il campo su cui lavorare, non sono mai state innescate le azioni preliminari e non sono mai stati scelti i mezzi e gli strumenti per intervenire. Le responsabilità sono molteplici e ne includono sicuramente l’assetto civile, economico ed istituzionale locale, ma certamente non può essere sottaciuta una principale responsabilità dello Stato che, nel corso di un secolo e mezzo, non vi ha mai messo mano con giusto approccio, chiarezza di obiettivi e corretta convinzione.

La vera unità tra le diverse aree del Paese ha come collante il nodo dello sviluppo. Anche per questi motivi, noi riteniamo che la politica dovrebbe finalmente lavorare con onestà di intenti per creare nuove prospettive, entro le quali elaborare per il nostro Paese finalmente un progetto di sviluppo stabile, equo, capace di generare quello che oggi manca: la fiducia. Invece, con questo vuoto, sta crescendo il disagio sociale, che è determinato dal lento e inesorabile declino industriale, che qualche settore politico e sindacale, accecato dal proprio massimalismo, sta drammaticamente sottovalutando. Gli stessi tentativi di delegittimazione dei ruoli sindacali, verso i quali, da parte di alcuni, si sta manifestando un’avversione con logica pregiudiziale, finiscono con il gettare soltanto ombre sull’identità delle forze sociali che, invece, sono fondamentali per garantire la coesione sociale a livello nazionale e sono un baluardo a difesa del rapido diffondersi di quella microcriminalità, sempre più diffusa, perché indotta dalle tasche vuote.

La crisi è stata anche, dunque, un banco di prova per tutti noi: anche se non si riflette su questo punto possiamo però dire che sul piano sociale la prova è stata dura ma la tenuta c’è stata. Ad esempio abbiamo garantito professionalità indispensabili per il settore, non è uscito massacrato il lavoro immigrato, abbiamo rinnovato sia pure in condizioni davvero difficili il contratto.

Proprio alla luce di queste considerazioni la Uil, e la Feneal con essa, sta insistendo sulla centralità dell’uscita dalla crisi e della ripresa della crescita attraverso la strada maestra dell’equità. Avere titoli per aprire un confronto libero e costruttivo, capace di richiamare Istituzioni e partiti alle questioni vere e non rinviabili che l’Italia deve affrontare, per il Sindacato significa offrire non solo agli interlocutori, ma anche ai propri rappresentati la garanzia della propria autonomia.

Autonomia da massimalismi vecchi e nuovi.

Autonomia che fa della Uil un sindacato non di schieramento ma di proposta e di partecipazione.

Autonomia che ci permette di valutare in piena libertà quello che è utile per i nostri lavoratori e quello che va cambiato, per evitare che una difesa conservatrice dell’esistente, così come abbiamo verificato nelle posizioni passate e recenti della FIOM, si traduca in una perdita secca sia per le ragioni del lavoro dipendente sia anche del ruolo negoziale e di controllo del sindacato.

È innegabile che la fase attuale registra molte difficoltà di rapporti fra Cgil da una parte e Cisl e Uil dall’altra.

Nella storia sindacale le sintonie fra le tre organizzazioni sindacali hanno oscillato più di una volta, ma c’è una costante: nei momenti di svolta spesso proprio la ostinazione di Cisl e Uil a non rimanere fermi, a non rifiutare l’ostacolo dell’evoluzione economica e sociale ha permesso alla fine, sia pure tra molti travagli, di far prevalere in tutto il sindacato, Cgil compresa, un’anima davvero riformista in grado di gestire il cambiamento.

Anche oggi siamo ad un passaggio delicato: se vogliamo evitare di farci logorare da quella stessa situazione che sta impoverendo la vita politica, dobbiamo sapere che si può, si deve passare, anche attraverso momenti di distinzione sindacale. Anche forte.

Perché a cosa serve essere uniti a parole su temi di carattere generale, dove forse le convergenze sono anche facili, quando in realtà resta diversa e distante la concezione del ruolo sindacale?

Questo è il motivo che ha spinto la Uil e la Cisl, a seguito della riunione congiunta dei rispettivi Consigli Generali dello scorso 15 settembre, a indire la manifestazione di sabato 9 ottobre a Roma a Piazza del Popolo. Una mobilitazione che punta a dare più forza ad un mondo del lavoro che dice basta a privilegi e furbizie. Un segnale forte da inviare al Governo e a tutti i partiti.

Al centro di questa importante iniziativa abbiamo posto il tema dell’equità fiscale. La leva fiscale è fondamentale in questa fase: per dare risposte alle difficoltà economiche dei lavoratori; per rianimare i consumi interni, ora molto depressi; per rilanciare l’occupazione; per contrastare la concorrenza sleale, che si annida nell’abusivismo e nel lavoro nero; per ristabilire sopratutto in termini reali, veri, il valore di equità, troppe volte mortificato.

Probabilmente ci obietteranno, come al solito, che non ci sono risorse sufficienti, che si provveda con interventi magari in grado soltanto di semplificare i doveri fiscali, ma senza, invece, mutarne il peso, ben consci che, comunque, la pressione fiscale in Italia ha superato il 43%, che è un livello alla lunga non più tollerabile. E’ necessario, invece, trovarle quelle risorse per cominciare a dare respiro a salari e stipendi ed ai redditi di pensione che si stanno erodendo, anno dopo anno, in modo allarmante.

La lotta all’evasione, la riduzione implacabile di sprechi e spese inutili, il taglio inesorabile dei costi della politica, sono queste le tre carte da giocare. Il macigno del debito pubblico, che sta puntando a superare anche il 120% del rapporto con il Pil, non deve bloccare questo processo di riforma. Deve semmai accelerare la ricerca di una maggiore equità. E noi dobbiamo chiedere a Governo e Parlamento di guardare avanti, oltre le dispute contingenti, senza più alibi di sorta e, per essere credibili, devono esser in grado di assumersi nuove e più concrete responsabilità.

Naturalmente per noi è importante agire secondo criteri di ragionevolezza e di buon senso. Soprattutto in una stagione di crisi profonda, come quella che stiamo vivendo, resta essenziale che, ad esempio, la nostra categoria possa conservare quelle conquiste, a cominciare dalla bilateralità, che vanno nella direzione del nuovo che bisogna costruire, e che è patrimonio comune dell’intera categoria.

Così come sarebbe poco lungimirante incalzare Governo ed  imprese sulla riapertura dei cantieri e su una concreta programmazione che rilanci il nostro settore per la sua fondamentale funzione, ognuno per sé, senza pensare, invece, ad una strategia veramente unitaria del Sindacato.

Fortunatamente la cultura dell’unità di azione è ormai consolidata da decenni nel sindacato italiano, perché deriva ancora da una sensibile richiesta che parte dal basso e, perciò, è ancora in grado di consigliare a tutti noi i modi migliori, più accorti e più concreti per agire nelle diverse circostanze.

Guardiamo al nostro settore: abbiamo combattuto una dura battaglia per contenere un consuntivo ancora più pesante in termini occupazionali.

Si pensi alla richiesta unitaria sulla cassa integrazione. Eppure la perdita di posti di lavoro, fra la fine del 2008 e la fine del 2009, ha sfiorato le 200 mila unità. Ed anche gli inizi del 2010 hanno segnalato, sia pure in forma minore, la prosecuzione di una strisciante emorragia occupazionale.

La crisi delle imprese, e delle piccole imprese in particolare, è cosa nota. E parlo non solo di quelle direttamente impegnate nelle costruzioni, ma anche di quelle che hanno perso fior di fatturato producendo materiali, componenti, macchinari per l’edilizia.

In questo caso siamo nelle stesse condizioni dell’economia più generale: c’è il problema di ripartire, ma c’è anche la consapevolezza che, per tornare ai livelli precedenti, passerà molto tempo.

Ed una delle note più dolenti riguarda lo stato delle opere pubbliche: quelle del genio civile, dopo la flessione del 6% nel 2008, sono diminuite del 7% nel 2009 e di un altro 4,95 nel 2010. Si spera nel 2011 in una leggera ripresa attorno al l’1,6%.

Ma la crisi segnala altre evidenze: va rilevato anche che c’è stata una caduta evidente delle piccole opere, piccole ma importantissime per la qualità della vita delle città, per la manutenzione del territorio, per favorire l’attività economica e sociale, così come la spesa degli Enti Locali è scesa in modo verticale, per i ben noti problemi legati alla sostanziale espropriazione delle loro risorse.

La situazione del residenziale non ha bisogno di molti commenti: secondo il Cresme, dopo il boom del volume di affari fra il 1997 ed il 2006, con un balzo di più 86%, gli ultimi tre anni hanno visto crescenti riduzioni.

Il crollo delle compravendite e la discesa dei prezzi hanno contribuito sensibilmente ad una flessione continua.

Anche in questo caso c’è attesa di un pur timido risveglio, ma fa bene il Cresme a sventolare sotto il nostro naso l’esempio degli Stati Uniti, dove, dopo mesi di ripresa sostenuta dagli incentivi, si è registrata una caduta del 25% nel mese di luglio.

Non sta meglio il comparto non residenziale. Si può allora dire che il 2010 sarà un anno di crisi ancora molto acuta, anche se qualche spiraglio si intravede: ad esempio regge la domanda privata di riqualificazione che nella seconda parte di quest’anno potrebbe crescere, secondo il Cresme, attorno all’1%.

E nel 2011 potrebbero manifestarsi gli effetti del “Piano Casa2” i cui esiti, finora, sono considerati dagli esperti piuttosto deludenti.

Quale è la conclusione di questo scenario non certo confortante?

Che non si esce dalla crisi per inerzia o per naturale aggiustamento del settore.

Che dobbiamo tener conto degli orientamenti delle famiglie che, in ogni settore di spesa, compiono risparmi e ritardano gli acquisti che riguardano i beni durevoli.

Ecco perché bisogna rimboccarsi le maniche e, soprattutto bisogna considerare questo settore come una delle leve più preziose per riaprire il capitolo di una crescita dinamica e di spessore.

In questo senso noi auspichiamo che questo messaggio venga fatto proprio dall’insieme del movimento sindacale.

Se vogliamo davvero dare un colpo ad una visione ormai superata della produzione e dell’economia reale e se, al tempo stesso, pensiamo che la vera sfida è la modernizzazione del paese, allora non possiamo non fare ogni sforzo per convincere e costringere Governo e Parlamento ad incoraggiare il rilancio del nostro settore come polo strategico per un Paese davvero rinnovato.

Pensiamo alla prevenzione e manutenzione del territorio messo a dura prova da eventi naturali, ma anche dall’incuria e dai ritardi con cui si sono mosse e si muovono le Istituzioni centrali e locali.

E lo diciamo oggi, con l’autunno alle porte, prima che si assista ad eventi annunciati i cui disastri costano spesso più dei soldi non spesi, per prevenire ed evitare vittime e distruzione di attività economiche.

La Feneal da tempo chiede un piano decennale per questi lavori, sottratto alle beghe politiche, certo nelle risorse, nelle priorità, nei tempi di esecuzione.

Un piano che unisce la Nazione, se è vero come è vero che i fiumi straripano in Liguria come in Campania, se le frane travolgono terrori del nord come del centro o del sud; se il nostro patrimonio archeologico ed artistico è ovunque messo in pericolo.

Ecco perché siamo convinti che su alcuni progetti si potrebbe, anzi si dovrebbe trovare una sintesi da parte di tutti, andando oltre lo sbandieramento di miliardi di euro che non si spendono, o la ricerca di facili consensi politici che, però, restano sulla carta, mentre lo smottamento di mezza Italia prosegue inesorabile.

Un piano di questo tipo si raccorderebbe bene con l’avanzare del processo di modernizzazione delle nostre reti infrastrutturali che sono essenziali per rendere agevole il raggiungimento in particolare delle nostre regioni meridionali. Invece che continuare ad elargire euro inutili per commissioni, consulenze, moltiplicazione di incarichi, sarebbe ora che quei soldi servissero ad aprire o riaprire i cantieri.

Ma con la modernizzazione infrastrutturale del Paese che non può non riguardare anche gli obiettivi di una maggiore autonomia energetica e una tutela sostanziale dal punto di vista ambientale dei nostri territori, si otterrebbe un altro risultato: quello di dare più forza al capitolo dell’innovazione che non è prerogativa solo dell’industria manifatturiera. Ma occorre dare un contesto utile a nuovi investimenti; serve fiducia, servono incentivi, servono cabine di regia che sappiano incalzare i centri di spesa decentrati, serve una ulteriore forte burocratizzazione, serve un credito più aperto e sensibile, soprattutto alle esigenze del tessuto produttivo, costituito dalle piccole imprese.

Abbiamo dalla nostra parte la tradizione di un sindacato che non si tira indietro, che vuole restare con i piedi per terra, che ha la cultura della partecipazione, che non rinuncia al conflitto, ma non ne fa un mito. E che sa trovare la forza per proporre soluzioni che impediscano passi indietro nella condizione dei lavoratori e sul terreno dei diritti.

La nostra cultura laica e riformista finora ci ha permesso, con la condivisione ed il lavoro comune dei nostri gruppi dirigenti, di non smarrire il filo di una iniziativa sindacale vitale e produttiva.

Noi non siamo né sfiduciati, né scettici. Ma siamo semmai preoccupati e delusi di questa chiara ed incongruente contraddizione: tutti avvertono che siamo alle soglie di equilibri internazionali e di assetti di società ancora diversi, ma manca il coraggio e la generosità, soprattutto in politica, per cominciare a trarre le conseguenze da queste analisi e preparare il Paese alle nuove stagioni. Noi siamo del parere che occorre ricordare ai governi, ai partiti, a chi come noi fa sindacato, che invece non c’è alternativa.

 

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