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3 settembre 2015 • News

ANALISI E COMMENTI a pag. 33 Corriere della Sera  del 3 settembre 2015

Mercato e concorrenza
Le tante ragioni per sostenere i fondi pensione

Va riconosciuta la valenza economica degli strumenti pensionistici negoziali, con buoni rendimenti
negli ultimi anni: il vero problema, però, è che in pochi si rivolgono alla previdenza integrativa Risparmio da
incentivare Sarà necessario individuare la via giusta per aumentare le adesioni: ciò significherà assicurare
una vita dignitosa a chi smette di lavorare
Mauro Marè* e Michele Tronconi**
I l recente articolo di Alesina e Giavazzi (Corriere, 4 agosto) richiama i vantaggi che il rafforzamento della
concorrenza, in vari settori, potrebbe avere per la crescita economica del nostro Paese. Sono osservazioni
fondate e importanti, che condividiamo. Quelle sui fondi pensione negoziali vanno meglio chiarite.
La nostra non è una difesa d’ufficio. Siamo per la concorrenza sempre e comunque, senza dimenticare che,
nelle condizioni di mercato in cui prevalgono asimmetrie informative e alti costi di transazione, il singolo
consumatore, lasciato solo, può trovarsi in serie difficoltà di scelta. In questi casi è preferibile promuovere
forme di adesione collettiva, come nel caso dei fondi pensione negoziali (cioè quelli che derivano dalla
contrattazione collettiva) che non gestiscono direttamente il risparmio previdenziale degli aderenti, ma
selezionano i gestori dopo averli messi in concorrenza.
Certo, per organizzare questi fondi è stato necessario coinvolgere i corpi intermedi, ed è evidente che il clima
d’opinione nei loro confronti sia cambiato. Senza troppe dimostrazioni, vengono identificati quali detentori di
rendite di posizione pericolose, sulla base dell’ipotesi della cattura del regolatore. Anche l’invito al legislatore
di interloquire direttamente coi singoli cittadini richiama un dilemma costitutivo delle democrazie
rappresentative, che si pose in modo drammatico alla fine del Settecento.
Le moderne Costituzioni, tra cui la nostra, l’hanno risolto, per quanto possibile, riconoscendo la libertà di
associazione. Infatti, come possono farsi sentire i cittadini, se non associandosi? Allo stesso modo, un
individuo è più forte di fronte al mercato assicurativo e del risparmio pensionistico se lo affronta da solo,
oppure attraverso uno strumento collettivo? È opportuno, quindi, ribadire i meriti di questi veicoli, proprio sul
piano dell’efficienza e della concorrenza.
La previdenza complementare ha lo scopo di aumentare il tasso di sostituzione tra pensione e retribuzione, a
fronte delle riforme pensionistiche degli ultimi 20 anni. Per garantire la sostenibilità dei sistemi pensionistici
pubblici si è ridotta la copertura che essi forniscono ai pensionati. Con l’attuale criterio contributivo, basato sul
principio di corrispettività, si stima che le coorti che andranno in pensione nel 2030, nel caso di una carriera
lavorativa priva di interruzioni, potranno ottenere un assegno pensionistico pari al 50-60%. Solo con la
previdenza integrativa questa percentuale può salire di 10-20 punti percentuali.
Per costruire il cosiddetto «secondo pilastro» si è dovuto far ricorso a risorse che erano già nella disponibilità
dei lavoratori, anche se in modo differito (il Tfr). Per incentivare il suo trasferimento presso i fondi pensione,
anziché mantenerlo in azienda, il legislatore ha previsto una fiscalità di vantaggio, anche se di recente si è
fatto un inopportuno passo indietro, con l’aumento della tassazione dei rendimenti. Mentre il sistema delle
imprese, rinunciando a una preziosa fonte di autofinanziamento, ha messo in gioco anche il contributo
datoriale. Si tratta, in questo caso, del risultato dell’autonomia negoziale che l’art. 15 del ddl concorrenza,
nelle parti ora soppresse, voleva mettere a disposizione del mondo assicurativo e bancario per alimentare i
Pip (le polizze assicurative su base individuale).
Niente contro i Pip, anzi, uno degli autori ne sottoscrive uno! Va però riconosciuta la valenza economica
anche dei fondi pensione negoziali, proprio in termini comparati. Negli ultimi sette anni di turbolenza
finanziaria essi hanno ottenuto un rendimento medio del 3,7%, al netto delle imposte, mentre i fondi aperti
hanno reso il 3,4% e i Pip il 2,7%. Non solo: su di un arco trentennale essi costano al singolo aderente, in
media, lo 0,20% all’anno, a fronte dell’1,50% circa dei Pip. Significa che a parità di rendimento facciale,
l’impatto delle commissioni può comportare una differenza del montante pensionistico di circa il 30%. Eppure
l’articolo 15, per contrastare una «lobby» finiva, speriamo senza volerlo… col favorirne un’altra, ben più
potente.
Sia chiaro, si deve essere a favore della concorrenza e dell’efficienza sempre. I fondi pensione negoziali
possono essere ridotti di numero, accorpando i più piccoli; con l’aumento della masse medie gestite, si può
migliorare la loro governance e l’impatto sull’economia reale del Paese. Il problema vero, però, in questa
fase, non è tanto la contendibilità del mercato, quanto la sua dimensione assoluta; sono ancora troppi i
lavoratori che mancano all’appello della previdenza complementare! Troppi, cioè, quelli che si troveranno con
una pensione insufficiente a garantire una vita dignitosa. Si devono trovare gli strumenti adeguati per
aumentare le adesioni, altro che lobby!
*Presidente Mefop
**Presidente Assofondipensione
© RIPRODUZIONE RISERVATA
03/09/2015
Pag. 33

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