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Rifare l’Aquila

18 giugno 2014 • News, News Territoriali

RIFARE L’AQUILA

di Vito Panzarella

Il contributo del Segretario Generale al numero di maggio di MondOperaio. 

A cinque anni dal terremoto c’è voluta la fiaccolata dei 12 mila per ricordare a tutti che  l’Aquila è ancora una città fantasma.  Il nodo della ricostruzione è ancora tutto aperto, anche se ha già, a suo modo, un monumento non certo gratificante, ovvero il cumulo di macerie accatastate fuori città, il cui destino è quello di essere smaltite nel tempo. Inutile dire che siamo di fronte all’ennesima vicenda all’italiana, con il colpevole ottimismo sbandierato agli inizi cui non sono seguiti atti coerenti e concreti.

Non è mancata la solidarietà, anche quella europea; però non sono mancate neanche le polemiche sull’utilizzo dei fondi stanziati. Le vicende giudiziarie hanno talvolta preso il sopravvento sui temi della ricostruzione, con  notizie di ruberie grandi e piccole, mentre l’ombra della criminalità organizzata aleggiava su appalti ed imprese. Una storia che fa a pugni con le reali esigenze della popolazione, che ha perso il suo centro storico, che ha visto ridursi drasticamente le sue attività, mentre disoccupazione e cassa integrazione sono salite in modo esponenziale.

Si dice oggi che è giunto il tempo nel quale sarà possibile voltare pagina. Noi avremmo preferito che si fossero determinate le condizioni per un grande patto sancito a livello nazionale su un progetto di rinascita dell’Aquila concordato fra governo e parti sociali con tempi, risorse e scelte certe e verificabili.

Ma è importante ed urgente comunque ripartire. Non è accettabile che una città come l’Aquila sia ridotta ad un deserto di buone intenzioni e di pessimo immobilismo ancora per anni. Ma la vicenda si presta a riflessioni di più largo respiro.

Con una crisi tanto profonda e lunga abbiamo assistito ad una emarginazione sempre più evidente del settore delle costruzioni, che ha pagato un prezzo salatissimo con la chiusura di tantissime imprese e la perdita di poco meno di mezzo milione di posti di lavoro. Non solo, dunque, il cantiere  dell’Aquila  è rimasto sostanzialmente inerte, ma in tutta Italia le porte dei cantieri si sono chiuse inesorabilmente, accentuando il salasso occupazionale e mortificando professionalità e potenzialità anche nuove sul piano tecnologico per costruire in modo più sicuro e compatibile con l’ambiente.

Le risorse scarseggiavano e continuano a scarseggiare, ma ciò non toglie che nessuna forza politica, nessun governo ha investito nell’edilizia, considerandola un settore che poteva attutire i colpi della crisi e preparare il ritorno alla crescita. A nulla è valso neppure l’accordo raggiunto a più riprese sulle scelte da attuare fra imprese e sindacati del settore. Stato centrale e istituzioni locali  hanno preferito tagliare a man bassa sul fronte degli investimenti, moltiplicando ancor di più gli effetti negativi sul settore e sull’attività economica ad esso collegato, per giunta in una totale assenza di una pur minima attenzione alla politica industriale del paese.

Eppure l’Italia di casi l’Aquila ne ha più d’uno. L’Emilia del terremoto, le zone alluvionate, il disfacimento di parti importanti del nostro patrimonio culturale ed archeologico sotto i colpi del maltempo. Una mappa orribile di disastri ambientali – ma anche provocati dall’uomo – nei confronti della quale non si è mai individuata una strategia di assieme basato sul binomio prevenzione-manutenzione.

Questo sarebbe il momento giusto per ritrovare la strada di un impegno pluriennale serio e determinato, per assicurare non solo la graduale risoluzione di problemi atavici, ma per evitare nuovi danni all’attività economica, ulteriore disoccupazione, altre ferite nei confronti dei nostri beni culturali.

Occorrerebbe mettersi attorno ad un tavolo non per resuscitare improbabili rituali concertativi, ma per costringersi tutti a finalizzare proposte e comportamenti nella direzione di una risistemazione del nostro territorio che manca da troppo tempo. Sarebbe un grave errore ignorare questo capitolo fondamentale per una ripresa economica duratura. Nei decenni scorsi abbiamo fatto indigestione di annunci roboanti e di cifre mirabolanti da destinare all’edilizia ed alle opere pubbliche. Molto è rimasto sulla carta, una parte è andata ad ingrassare la criminalità organizzata, qualcosa si è fatto: ma sempre più ha assomigliato ad un rivolo di acqua che sta per finire.

Serve una forte svolta. Abbiamo valutato con attenzione  l’impegno espresso più volte nei riguardi dell’edilizia scolastica, dove c’è veramente molto da fare. Siamo convinti che sia un segnale che va oltre il ripristino della dignità della scuola e della cultura, e che possa rimettere in moto attività ed occupazione qualificata. Sarebbe importante concepire l’intervento nella scuola come il primo capitolo di un impegno a più largo raggio. E’ vero però che al tempo stesso suscita perplessità la tendenza a diminuire ulteriormente gli investimenti fissi lordi delle Pa. Una contrazione che può a cascata provocare conseguenze non positive per il settore a livello locale.

Se vogliamo che l’indicatore della disoccupazione torni a flettere nei prossimi anni non possiamo illuderci che questo possa essere ottenuto solo con una risalita dei consumi interni, che pure è essenziale, o con qualche dose aggiuntiva di flessibilità nel lavoro. Occorre invece creare le condizioni per realizzare nuovi posti di lavoro. E il settore delle costruzioni può tornare ad essere un volano promettente almeno  per i prossimi due-tre anni.

Noi non ci illudiamo: sappiamo che la strada è in salita ed i condizionamenti europei – speriamo attenuati da una posizione italiana più ferma nel difendere le ragioni della crescita – peseranno ancora. E’ inevitabile che per qualche anno dovremo fare i conti con misure una tantum, con scelte parziali, con interventi congiunturali in grado di attenuare  le difficoltà economiche e sociali. E’ uno scenario che non ci piace ma al quale sarà difficile sfuggire. Sarà certamente meno indigesto se si riuscirà a garantire una maggiore equità, se le riforme istituzionali faranno centro, se torneranno ad avere priorità valori come la solidarietà e l’interesse generale.

Ma l’uscita dalla crisi non può essere il frutto di misure e decisioni solo contingenti. Perché potrebbero produrre nuove diseguaglianze, lavoro nero, una inaccettabile  contrazione dei diritti dei lavoratori, un declassamento delle forme di partecipazione e della contrattazione. Certo, il sindacato deve fare la sua parte. Non può restare chiuso ad attendere che passi la nottata, non può reclamare un ruolo senza sostanziarlo con progetti e proposte che guardino al futuro, non può difendere il suo ruolo contrattuale efficacemente se  non è in grado innovare e di non temere la prova dei rapporti di forza. Per fare tutto questo abbiamo bisogno di una nuova stagione di lavoro comune, di unità propositiva, di incalzare con nostre proposte originali governo e partiti.

La questione della ricostruzione dell’Aquila, come quella di rilanciare un’opera di sistemazione del territorio possono diventare opzioni forti per un sindacato che non ha timori di affrontare le sfide che ha davanti. Se c’è poi una lezione utile del passato, questa la possiamo ritrovare in quella ricerca di collaborazione fra sindacato e cultura che ha fatto parte delle migliori stagioni sindacali dei decenni che abbiamo alle spalle. I contributi degli esperti che Mondoperaio ha raccolto ci suggeriscono che questa strada può avere non solo senso ma prospettive importanti.  Sarebbe molto utile coglierli anche per valorizzare una idea di riformismo che non è solo memoria ma cantiere di proposte più che mai attuali. 

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