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Mondoperaio – Gennaio

1 gennaio 2020 • News

L’URGENZA DI CONIUGARE SVILUPPO E SOSTENIBILITÀ
Le colpe dei padri ricadono sui figli? O meglio. Le mancate scelte di questi anni ricadono, come una inesorabile sentenza, sui di noi?
In queste settimane mi sono spesso posto questa domanda.
Venezia e Taranto, ed anche il caso Alitalia che periodicamente presenta il suo conto, se mai ne avessimo avuto bisogno, hanno reso ancora più urgente una risposta.
L’Italia ha un chiaro problema di crescita economica. Era già evidente prima della crisi internazionale, in un decennio in cui il nostro tasso di crescita è stato sensibilmente inferiore alla media europea, ed è rimasto evidente durante la crisi, quando la recessione è stata nel nostro paese più lunga e profonda che altrove e ha visto, insieme alle difficoltà strutturali, una perdurante debolezza della domanda interna. Alla radice di queste difficoltà, vi è certamente una molteplicità di fattori, di natura economica, ma anche politico-istituzionale. L’Italia ha così vissuto gli ultimi trent’anni caratterizzati da massicce privatizzazioni, che hanno sottratto allo Stato interi settori strategici; ampie riforme del mercato del lavoro, che hanno contribuito a peggiorare la qualità dell’occupazione e a ridurre i salari; alcune riforme universitarie, che hanno marginalizzato il settore della ricerca. Questi interventi hanno privato l’Italia degli strumenti fondamentali per sostenere lo sviluppo economico e hanno trasformato il Paese da una potenza economica mondiale a un “nano industriale”.
Siamo così passati, da un vasto intervento pubblico in diversi settori produttivi di eccellenza a livello internazionale, che era stato pensato per poter sostenere uno sviluppo di lungo periodo, ad un Paese fortemente dipendente dalla domanda di altri Paesi, i quali, avendo una politica industriale ben definita, possono imporre livelli di produzione, occupazione e salari.
Un numero su tutti può rendere bene l’immagine del problema. Le crisi aziendali attualmente affrontate al tavolo ministeriale sono oltre 150 (Dati Ministero dello Sviluppo Economico, 2019). Si tratta di un chiaro ritratto del lento e inarrestabile declino economico dell’Italia. Per tutte queste vertenze, che hanno delle ripercussioni negative in termini industriali, occupazionali e salariali, non è stata ancora predisposta alcuna soluzione di lungo periodo capace di invertirne la rotta. Il caso dell’ILVA si inserisce in questo drammatico elenco ed il settore delle costruzioni non sfugge a questa sciagura.
La crisi di oltre un decennio non accenna ad attenuarsi e lo stato di salute del nostro comparto, fotografato dai dati, è avvilente. Con 600mila posti di lavoro persi, 120mila aziende fallite (il 90% delle quali artigiane e di piccole dimensioni) e la crisi delle grandi imprese abbiamo registrato, dal 2008 ad oggi, una perdita di 104 miliardi di euro, dei quali oltre 6 miliardi negli ultimi mesi, una cifra che vale lo 0,5% del Pil. Ma la cosa più grave di questi anni è stata la totale assenza di politiche da parte di tutti i governi che si sono succeduti e che non sono stati in grado di sfruttare la leva economica del settore costruzioni. L’edilizia è stata completamente abbandonata e prova ne è la deregolamentazione che oggi regna sovrana nei cantieri, con il boom di lavoratori irregolari che, secondo i dati Istat, Agenzia delle Entrate e Ispettorato del Lavoro, nel nostro settore interessa circa 400 mila persone.
E’ urgente dare delle risposte al Paese a partire da manutenzioni e messa in sicurezza delle infrastrutture esistenti per evitare che si ripeta quanto accaduto a Genova e in tanti altri posti d’Italia, non ultime le zone colpite dal sisma del 2016. La mancanza di cultura della prevenzione è un fatto molto grave, causa vera dei disastri che il nostro paese riporta ad ogni ondata di maltempo. Siamo un paese fragile è vero, esposto con l’82% dei comuni in zone ad alto rischio idrogeologico, i suoi circa 16 milioni e mezzo di edifici insicuri e costruiti prima della normativa antisismica, una rete stradale altrettanto obsoleta e dunque facilmente soggetta a crolli, malfunzionamenti e guasti, con il 65% delle infrastrutture stradali e autostradali risalenti agli anni 60 e 70 e solo il 10% sviluppato negli ultimi 25 anni. Ma proprio per questo motivo, compito della politica deve essere mettere al riparo il suo territorio e tutelare i suoi cittadini. Quale migliore occasione per creare lavoro, facendo delle necessità e dei bisogni un’occasione per risollevare il paese e ridare ossigeno così anche ad un’economia che stenta a riprendersi.
Le sempre più frequenti calamità naturali rendono necessario un deciso piano di messa in sicurezza del territorio italiano per evitare che le risorse vengano spese sempre di più per riparare i danni invece che per un serio e pluriennale programma di investimenti orientati alla prevenzione.
Negli ultimi settant’anni abbiamo pianto oltre diecimila vittime per calamità naturali, nella fattispecie eventi sismici, frane e alluvioni. La spesa per rimediare ai danni provocati da questi fenomeni è stata sinora pari a 242 miliardi di euro, una cifra superiore a quella necessaria per realizzare opere di prevenzione, che avrebbero evitato numerosissimi eventi tragici. Eppure si attende da molto tempo un piano contro il dissesto a partire da una legge che regolamenti il da farsi senza più aspettare l’emergenza, capace spesso di smuovere i governi ma non sempre con risultati duraturi.
Sappiamo che una prima proposta di legge contro il dissesto idrogeologico fu elaborata nel 1992, dopo la catastrofe della Valtellina, ma nulla fu poi fatto ed altri disastri si sono susseguiti spazzando via interi paesi e causando la morte di migliaia di persone. Così ugualmente a Venezia, per parlare di un fatto recente, dopo mezzo secolo dall’alluvione del 1966, nulla è cambiato né è stato fatto, a parte spendere soldi per un’opera di contenimento che neppure è stata completata e già mostra la sua inefficacia per colpa di burocrazia e corruzione. L’Italia è un paese in cui si concentra oggi il 70% delle frane che avvengono in Europa eppure lo si dimentica facilmente. Bisognerebbe avere più memoria e soprattutto farne tesoro. Tutti i governi che si sono succeduti non hanno risparmiato parole sul da farsi, sulle colpe e le responsabilità ma quando si tratta di fare pochissime sono le risorse stanziate o spesso mal gestite o, ancora peggio, non spese (appena il 20% dei soldi messi a disposizione negli ultimi due anni è stato infatti utilizzato). Anche recentemente è stato promesso un Piano Nazionale ma ancora nulla si vede all’orizzonte. Quello che però resta evidente è che la questione della messa in sicurezza del territorio in Italia, minacciato dal rischio sismico e dal dissesto idrogeologico, è ormai improrogabile.
Così come bisogna essere capaci di produrre risultati quantificabili in termini di riduzione dei consumi energetici e di miglioramento del comportamento antisismico degli edifici, riducendo i rischi per la salute e l’impatto ambientale. In questa prospettiva si profila anche l’obiettivo della rigenerazione urbana delle città, così come quello della tutela del patrimonio paesaggistico, architettonico e artistico, quali priorità nazionali. L’adeguamento necessario della nostra rete infrastrutturale, materiale e immateriale – da prevedere in stretto rapporto alle connessioni europee e mediterranee e con una spiccata propensione alla movimentazione su ferro e per mare delle merci – permetterebbe, infatti, di impiegare al meglio la nostra posizione strategica di crocevia per le nuove rotte commerciali e per collegare il continente asiatico ai mercati occidentali.
È necessario in Italia uscire dalla logica dell’emergenza per passare ad una visione che superi i vecchi modelli di sviluppo, basati sulla quantità e sulla cementificazione indiscriminata, imboccando la strada della qualità, della cura strutturata del paesaggio attraverso una seria politica industriale per il settore delle costruzioni.
L’Italia è indubbiamente uno dei Paesi, a livello mondiale, che vanta storicamente la progettazione e costruzione di grandi opere infrastrutturali: da quelle idriche a quelle stradali, da quelle elettriche a quelle del trasporto su mare. Un patrimonio di professionalità e maestranze, di ingegneri, architetti, geometri e operai specializzati, invidiabile: non è un caso che in Italia si brevettino nuove tecniche costruttive e materiali all’avanguardia. Ma questo capitale di saperi e alte competenze rischia concretamente di indebolirsi.
Occorre agire su una politica industriale nuova con una visione di sistema, che non disperda un patrimonio produttivo ed occupazionale ancora importante e accompagni la trasformazione del mercato, l’innovazione di processo e di prodotto, una sua maggiore sostenibilità ambientale, in coerenza con gli stessi obiettivi ONU e dell’UE per un nuovo modello di sviluppo.
Occorre un patto sociale tra istituzioni, imprese, sindacati e opinione pubblica per costruire una piattaforma comune in cui legare ambiente e sviluppo, lavoro e qualità, a partire dalla questione di Taranto.
Ci vorrebbe una visione di lungo periodo perché il problema è che l’intervento pubblico non serve se non è sostenuto da una politica industriale e da una strategia univoca.
Occorre affrontare la crisi di diverse grande aziende e relativi indotti (da Astaldi a Cmc, da GLF a Tecnis, ecc.) che, interessando decine di opere grandi e medie, ha di fatto bloccato o rallentato il programma pluriennale “Connettere l’Italia” e la realizzazione di grandi opere necessarie al Paese. Al riguardo è necessario generalizzare la politica di intervento delle banche (conversione dei crediti in partecipazione) e soprattutto di Cassa Depositi e Prestiti, allargando il perimetro di Progetto Italia anche attraverso la creazione di uno specifico Fondo di Garanzia, a sostegno anche delle piccole e medie imprese.
Il MISE dovrebbe farsi promotore di specifici tavoli tecnici “tematici”, coinvolgendo altri Ministeri ed Istituzioni e rendendo permanente il tavolo per il rilancio del Settore, con il coinvolgimento delle Parti Sociali più rappresentative e delle diverse istituzioni interessate.
I corpi intermedi sono un fattore fondamentale della democrazia e dello sviluppo civile ed economico del Paese. Se le contraddizioni non sono più oggetto di mediazione è inevitabile che in una società, in questo caso quella italiana, sorgano fenomeni di ribellione e di protesta, perché quando salta il patto sociale salta fatalmente anche il patto democratico, e se prendono piede la disgregazione istituzionale e sociale, il populismo, è un rischio per tutti: non solo per il sindacato, ma per il Paese.
Il processo di disintermediazione, affermatosi nella politica italiana dell’ultimo ventennio, è stato caratterizzato dall’accentramento degli aspetti decisionali in poche sedi, declassando il concetto di mediazione e la prassi della concertazione. La politica industriale, ad esempio, si è dileguata, lasciando spazio alle sole leggi finanziarie come strumento di gestione della finanza pubblica. In un paese come l’Italia, invece, la politica industriale necessariamente nasce dai territori e dai settori, e dalle mediazioni con i particolari può nascere l’interesse generale.
È indispensabile però la Qualificazione del settore, delle imprese e il rispetto dei CCNL e della correttezza contributiva come precondizioni per una nuova politica industriale.
Riteniamo indispensabile un rafforzamento dell’art. 30 c. 4 del Codice degli Appalti sulla corretta applicazione del CCNL edile contro le diverse forme di dumping contrattuale.
Bisogna tornare al Durc nella versione ante 2015 (prima del DOL) al fine di ripristinare una certificazione delle regolarità contributiva con valenza trimestrale e per cantiere.
Dare piena attuazione all’art. 105 c. 16 del Codice degli Appalti con la definizione delle tabelle di congruità e la subordinazione del riconoscimento di ogni incentivo pubblico (bonus ristrutturazione, eco bonus, incentivo anti sismico, bonus facciate, ecc.) al possesso per lo specifico cantiere della certificazione di congruità per cui si chiede il contributo. In questo modo, oltre a contrastare l’evasione fiscale (bonifici parlanti) si contrasterebbe anche il lavoro nero o grigio nel mercato privato.
Ed ancora noi pensiamo sia utile mettere in campo nuove e più efficaci misure per le politiche abitative, attraverso progetti per il recupero di immobili di edilizia residenziale pubblica ed incentivando la ristrutturazione di edifici da destinare all’edilizia residenziale sociale; rimodulare una politica di sistema relativamente agli incentivi per l’efficientamento energetico degli edifici residenziali e industriali, per le ristrutturazioni private, per l’adeguamento antisismico.
L’evoluzione tecnologica sta determinando grandi cambiamenti in tutti i settori lavorativi, a partire dal nostro, e resta per noi fondamentale continuare a salvaguardare le condizioni di giustizia e di avanzamento nella società che hanno sempre influito sulla qualità della vita politica e sociale del Paese. Per questo il Sindacato deve essere sempre più forte e unito, tenendo insieme autonomia, laicità e modernizzazione della sua esperienza e sollecitando una nuova assunzione di responsabilità nell’economia. Lavoro dignitoso adeguatamente retribuito, solidarietà e sviluppo sostenibile sono i tratti caratterizzanti di una nuova Italia, all’interno di un’Europa più sociale, che noi difendiamo e di cui in molti ormai avvertono l’esigenza.

DI VITO PANZARELLA – MONDOPERAIO DICEMBRE 2019

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